“I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta”.

0300771h-13E’ una delle tante simboliche frasi del Piccolo Principe di Saint – Exupéry.

Nel corso dell’anno è difficile trovare in Italia una esperienza professionale legata al Fundraising così coinvolgente come il Festival del Fundraising che si è svolto la scorsa settimana. Tanto ne hanno già parlato (ad es. qui Loretta Vieri; qui Barbara Bagli e qui Elena Zanella).

Un susseguirsi di sessioni, di volti e di professionisti che, concentrandosi su cause, strumenti, motivazioni e approcci diversi, tentano tutti e comunque di FARE LA DIFFERENZA raccontando, ognuno con la sua grammatica, l’impatto prodotto, le lezioni che hanno imparato, le prospettive nuove per continuare a promuovere temi comuni di amore, tolleranza, attenzione e generosità.

Qui si articola la storia della nostra professione, dove i fundraiser, preparati da esperienze ascoltate dai propri colleghi, utilizzano quanto appreso per espandere ulteriormente i loro orizzonti ancora più in là.

Ogni “generazione” diversa da quella successiva, lavora talvolta su cause molto diverse, proiettandosi su tecnologie e metodi che ora possiamo solo immaginare. Con un unico punto fermo: la dedizione per i più alti standard etici e l’obiettivo di costruire significativi effetti per cambiare il mondo.

Ma il ciclo non avviene da sé. Dobbiamo contribuire a preparare le prossime generazioni, quelle che abbiamo visto muoversi nelle sale di Castrocaro, e la generazione dopo. Così diversi come saranno da noi, dobbiamo infondere in loro quei valori comuni. E poi lasciarli correre a raggiungere nuovi traguardi che in questo momento intravediamo soltanto.

Muoverci in quelle sale significa ogni anno ridare movimento alla nostra testa, alla nostra capacità di apprendere qualcosa di nuovo e a saper modificare o reinventare il nostro quotidiano programma di lavoro, fatto di metodi, strumenti, pratiche e processi. Noi spesso non pensiamo al modo in cui funzioniamo normalmente al lavoro. Ma la nostra capacità di migliorare il nostro modo di fare le cose dipende dal definire e modellare le nostre abitudini quotidiane della mente e della pratica – il nostro “lavoro standard” di fundraiser.

Nel confronto con i colleghi e nei 20 anni di esperienza spesi per una organizzazione, ho imparato che c’è una grande ricchezza nel modo con cui le organizzazioni hanno individuato precise caratteristiche attraverso le quali operare. Tutte possono essere incluse in tre grandi categorie: 1) Ciò che si deve fare, le procedure vere e proprie (ad esempio, le ricevute e le rendicontazioni, la corretta informazione e allineamento di chi ci eroga risorse), al fine di garantire la trasparenza e coerenza nostra e dell’organizzazione, la corretta registrazione e il riscontro al sostenitore, 2) Ciò che si dovrebbe fare per rendere le persone consapevoli del costante margine di miglioramento (ad es. uno strumento che è stato individuato per essere il metodo migliore per svolgere una mansione), per ottenere adattabilità, flessibilità e soprattutto innovazione, e 3) Ciò che si potrebbe fare per far sapere dove esiste un margine di discrezione in ciò che possiamo proporre (ad es. le condizioni con cui condividere il nostro brand con un’azienda in una iniziativa di co-marketing), per favorire la creatività, l’innovazione, la flessibilità per soddisfare le esigenze dei donatori/sostenitori in tempo reale, e la soddisfazione professionale di ognuno di noi.

Più precisamente:

  1. Ciò che si deve fare. Fallimenti evitabili continuano a verificarsi in quasi ogni ambito di attività organizzativa e in processi già consolidati. C’è ampia letteratura su come, ad esempio, il semplice utilizzo di una lista di controllo sia un ottimo modo per evitare errori e per gestire la complessità, (ad es. tutti i passi per redigere, preparare e spedire un mailing). I piloti utilizzano le liste di controllo per fare in modo che gli aerei non cadano a causa di errori evitabili. Le liste di controllo aiutano richiamando esplicitamente alla memoria i passi necessari in un processo; in condizioni di complessità, come il controllo delle nostre campagne e dei diversi rapporti con i donatori, sono necessarie per la verifica e per il raggiungimento dell’obiettivo. Non deve mancare lo spazio per il giudizio, ma il giudizio aiutato.
  2. Ciò che si dovrebbe fare. Come possiamo attuare la mission dell’organizzazione, eseguire la sua strategia e raggiungere gli obiettivi, meglio ? Esistono discipline su come implementare e migliorare i processi, alcune note e altre meno. Nello specifico: quando qualcosa è stato standardizzato, proprio questo standard diventa la base per esperimenti e test, per migliorare il lavoro e la performance. Ad esempio individuare stili, contenuti e tematiche prediletti dai donatori, sviluppare una ipotesi su come migliorare il lavoro per fornire il livello di qualità richiesto, cambiare una variabile alla volta, ed osservare se si raggiungono obiettivi migliori.Aderendo ad uno standard si garantisce che i miglioramenti siano sostenuti, ma si facilita anche la formazione. Ciò che “si dovrebbe fare” aiuta a operare in quella zona tra il “si deve fare” e il “si potrebbe fare”. E’ un punto chiave: per produrre miglioramenti piccoli e rapidi in maniera costante, è necessario impegnarsi nel generare nuove idee e condurre esperimenti.
  3. Ciò che si potrebbe fare. Per costruire le capacità di un’organizzazione, e per aumentare il coinvolgimento e la motivazione complessiva delle persone, i dirigenti devono dare al team ogni opportunità di prendere l’iniziativa e di essere creativi. Il tuo staff vuole l’autonomia di padroneggiare il suo lavoro e adempiere all finalità condivise dell’organizzazione. Dovrebbe venire da sè di chiedere alle persone di cercare i modi per migliorare il proprio lavoro. Noi soprattutto che abbiamo a che fare con le persone (i nostri donatori) e che dovremmo costantemente ricordare che il fundraising è sviluppo di un rapporto, prima che richiesta di risorse, abbiamo l’obbligo di lasciare libera iniziativa di gestire questo rapporto, nel solco che l’organizzazione e la mission tracciano.

Dobbiamo farla finita con l’idea che lo standard significa necessariamente rigidità. Piuttosto, lo standard può aiutare le persone a fare il loro mestiere in modo coerente e affidabile e può migliorare la modalità con cui lo svolgono. Questo mi sono portato a casa quest’anno: vedere crescere e rinnovarsi le idee che io stesso ho imparato (il Ciclo del Fundraising ad es.) mi ha aiutato a capire che è necessario utilizzare una visione flessibile di procedure operative standard. E la vecchia storia che l’efficienza richiede burocrazia e che la burocrazia ostacola la flessibilità dovrebbe essere sostituita con un nuovo modello: l’applicazione intelligente di lavoro standard permette di avere efficienza e flessibilità.

Per questo da un po’ di anni racconto volentieri il MIO metodo, perchè qualcuno possa aiutarmi a capire come migliorarlo.

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