Marketing vs Marketing

La curiosa infografica allegata e la recente partecipazione al Festival del Fundraising con il Forum su Aziende, mi offrono lo spunto per una riflessione sul potere di ingaggio col mondo corporate.

Duole rinominarla, ma la recente crisi finanziaria non ha fatto che acuire il divario tra le logiche del business e quelle del nonprofit. Mi aggancio all’interessante dibattito scaturito sul blog della Scuola di Fundraising di Roma (punto 5) per affermare che è assolutamente condivisibile il giudizio secondo cui siamo tutti un po’ vittime del gioco delle parti in cui ognuno tende a proteggere il proprio ruolo (orticello), senza scendere nella “tenzone” del mercato dell’altro.

Concordo con la strategia di abbandonare nella nostra promozione le logiche di marketing ma portare DENTRO i meccanismi del marketing qualche logica legata alla sostenibilità del welfare sociale. E proprio in questo vedo tutta la potenzialità della “contaminazione”.

Mi spiego: forse quello stesso elemento di novità che si va giustamente cercando nei rapporti col profit, si potrebbe trovare scendendo proprio sul terreno dei marketing man (del profit) e offrendo loro quel valore aggiunto che solo le nostre modalità di lavoro, i nostri valori e le nostre attività possono offrire ai loro prodotti.

Come si nota dalla bella rappresentazione, dietro ai numerosi brand ci sono pochi ma enormi attori del mercato che promuovono prodotti anche molto simili tra loro ma che rosicchiano una fetta di mercato in più.

La valutazione del brand rientra nella più vasta ed affascinante disciplina della valutazione degli intangible assets, ove si ricomprendono gli intangibili più facilmente quantificabili, quali per es. brevetti, licenze, marchi registrati, tecnologie nonché le risorse umane ed il loro modo di operare in un determinato assetto organizzativo.

Ed esistono molte e rigorose metodologie di calcolo.

Gli uomini di marketing generalmente sposano il concetto che un brand sia in grado di fornire un certo “valore aggiunto” e lo fanno parlando di “brand equity”. Questo è talmente radicato che alcune aziende scelgono strategie, tattiche ed investimenti promozionali che possano “preservare” o “potenziare” il valore della brand equity; ma anche dando per scontato che a tale concetto possa essere associato un valore; limitare la brand equity alla sua dimensione finanziaria non spiega nulla.

Secondo il Marketing Science Institute BRAND EQUITY è “the set of associations and behavior on the part of a brand’s customers, channel members and parent corporation that permits the brand to earn greater volume or greater margins than it could without the brand name”.
In questo caso emerge con forza il criterio di “valore aggiunto”, declinato nei maggiori volumi e margini ottenibili da chi ha sviluppato un brand, rispetto a chi opera con prodotti indifferenziati.

Il Nonprofit che – per sua natura – è portatore soprattutto di valori, deve uscire dall’indifferenziato, sedersi ai loro tavoli con in mano già un preciso riferimento ai loro brand (il biscottino, il pannolone o l’anticalcare?) ma con la certezza che – secondo opportune strategie – potremo, per ogni singolo prodotto, offrire loro l’opportunità di coinvolgimento più utile ai nostri progetti e/o attività. (un comarketing? uno spazio promozionale sui loro packaging?).

Le politiche di CSR delle grandi aziende sono ancora immature per non trincerarsi dietro un “le scelte dell’azienda per ora sono orientate ad altro” e i grandi marchi come – tra i tanti –  Unilever, P&G, Nestlè e Kraft non possono che offrire tutto il loro vasto panorama di prodotti per sviluppare un minimo di ingaggio anche con il mondo nonprofit, oltrechè con il profitto tout court.

Forse allora i colori, i logo, i font non saranno i soli elementi chiave nella valutazione della brand equity e della capacità di farsi catturare da sopra uno scaffale.

One Comment

  1. Massimo Coen Cagli Reply

    Caro Stefano, scopro solo adesso il tuo blog. Ti ringrazio per citazioned el nostro dibattito.
    Mia opinione, che vale quello che vale vista la mia incompetenza sul brand equity: gli uomini di marketing delle aziende che usano la CSR per le strategie di brand vivono all’interno di un paradigma che non esiste pià, ossia quello della reputazione dell’azienda. Essi pensano (come tutto il mondo delle aziende) che la CSR aumenta la reputazione. In verità la reputazione viene data dalla comproensione dell’insieme delle attivitò di azienda e nei tempi moderni questa capcitò di cernita da parte degli stakeholders è aumentata enormemente. Cercare di migliorare la reputazione con la sola CSR è opera improba. Unicredit fa delle cose buone sui giovani e fa delle porcherie con i derivati. Il risultato non è una buona reputazione. E poi se deve essere CSR vera, allora al centro di essa non ci deve essere la reputazione ma la coscienza. La coscienza riguarda se stessi e quindi forse può avere un forte legame con l’etica della impresa. La reputazione riguarda ciò che gli altri pensano di me. E qui l’etica c’entra poco. Forse è il caso che le aziende (e anche il non profit) ripensino al loro rapporto facendo meno di tutte le sovrastrutture ideologiche e pubblicitarie che si sono create in questi ultimi anni (e di cui il non profit e il fund riasing sono stati correi e non interlocutori critici).
    A presto

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