L’atteso Festival e un po’ di …. scaramanzia

Il post con il quale il collega Paolo Ferrara la scorsa settimana ha voluto ricordare simpaticamente (qui) l’avvicinarsi della sesta edizione del Festival del Fundraising mi dà l’opportunità di evidenziare tre cose che – a mio avviso – un fundraiser dovrebbe sempre fare (e non tutti fanno quanto meno con il giusto spirito):

1. Partecipare a eventi formativi, workshop, incontri e quant’altro consente di mantenere/fornire un costante aggiornamento su quello che nel settore si fa e si dice. Il nostro mestiere coniuga elementi della comunicazione e del marketing che, a loro volta, vivono e “respirano” del contatto con il prossimo, con la trasmissione della conoscenza e con l’acquisizione delle strategie altrui per assecondarle, assimilarle, respingerle, copiarle, migliorarle, peggiorarle o solo e semplicemente ascoltarle. Proust diceva: ” Sapere non permette sempre di impedire, ma almeno le cose che sappiamo le teniamo, se non tra le mani, almeno nel pensiero dove le disponiamo a nostro piacere, cosa che ci dà l’illusione di una specie di potere su di esse”. Anche se la citazione era riferita ai meccanismi propri della gelosia, mi piace pensare che qualsiasi cosa occupi il nostro interesse abbia già un ruolo privilegiato prima di qualsiasi modalità attraverso la quale tentiamo di promuovere oppure no questa stessa idea;

2. Raccontarsi e ascoltare le vicissitudini del nostro lavoro. Molto spesso nel nostro settore la reticenza e la mancanza di condivisione (di obiettivi e di risultati) condizionano il sereno sviluppo delle nostre strategie e quindi delle mission delle nostre organizzazioni. Di questo ne sono fortemente convinto. Raccontare le nostre esperienze, buttarle fuori, è già di per se stesso un atto liberatorio. Non può cancellare la dolorosa valutazione per un insuccesso o la gioia per la giusta realizzazione di un obiettivo, ma può essere almeno un modo per prenderne le distanze, per mettere un punto e per farne una valutazione condivisa con le esperienze degli altri e non autoreferenziale. Anche qui l’ascolto di noi stessi ci aiuta ad aumentare la nostra capacità di ascolto verso gli altri , la riflessione verso quelle strategie che ci sono lontane ma, in fondo non estranee. Ritornare ad eventi e ad operazioni passate ci fa capire il motivo di scelte che forse oggi non faremmo più ma in quel momento rappresentavano l’unico modo possibile per trovare le risorse necessarie. Condividere la nostra esperienza con altri, significa offrire ad altri la possibilità di conoscerci, ci permette di trovare punti di condivisione sentendoci affini e sviluppando strategie comuni. Crea comunicazione.

3. Parlare e raccontare di quello che amiamo fare. Non lo nascondo: ci sono cose nel fundraising che non mi piacciono e che non farei mai se non fossi costretto (odio il Direct !). Mi diletto e mi appassiono sul legacy fundraising e le strategie per i lasciti testamentari e i grandi donatori. Mi piace arrivare a colloquiare con chi sta seriamente riflettendo su come impiegare il proprio patrimonio (piccolo o grande che sia), magari pensando alla nostra nonprofit. Mi piace immaginare quali siano i modi, i canali, i linguaggi migliori per promuovere il testamento, la consapevolezza che sia necessario pensare a noi dopo di noi. Mi piace dedicare energie con altri colleghi a condividere il modo migliore per incrementare la consapevolezza e l’importanza che questo strumento ha e avrà sempre di più. Per fortuna che al Festival mi viene offerta l’opportunità di farlo. E come sempre ritengo importante farlo nella maniera più “leggera” possibile, affrontando l’argomento nel modo più lieve rispetto alla delicatezza dell’argomento. Trasferire una modalità che dovrà essere – a sua volta – trasferita con altrettanta passione e pacata determinazione.

Paradossalmente l’umorismo non è uno strumento che viene spesso utilizzato nel marketing del legacy. Una delle case histories più famose è quella dei sottobicchieri  di Greenpeace Australia (vedi qui). Tuttavia, l’umorismo è uno dei tipici modi con cui si tenta di affrontare l’idea della morte, esorcizzarla per non temerla. Sono convinto che, con il giusto equilibrio, un minimo di ironia possa aiutare le persone a riflettere sul pianificare la destinazione dei loro patrimoni a fine vita, aiutandoli a elaborare nel modo migliore il pensiero della  morte e del morire, superando quello scaramantico disagio che, soprattutto in Italia, limita le potenzialità dello strumento.

Naturalmente, per trovare il modo migliore con il quale introdurre l’argomento, è necessario prendere in considerazione il pubblico. Uno dei motivi per cui i sottobicchieri di Greenpeace hanno avuto un tale successo è che sono stati creati per essere utilizzati nei pub, e quindi erano adatti per il pubblico e il contesto in cui sono stati distribuiti. E’ anche necessario avere consapevolezza del posizionamento del proprio marchio: Greenpeace è un marchio che si posiziona come “ribelle” e può quindi spingersi un po’ oltre i confini del “normale”. Lo stesso stile di umorismo non può essere visto come appropriato in organizzazioni dal carattere più tradizionale, o che si occupino di cause più sensibili (legate magari alla salute).

Quello che una persona trova divertente, può solo sollevare un sorriso ironico in un altro o può anche causare offesa ad un terzo. Tutto andrà naturalmente testato, senza dimenticare la varietà dei modi, dei toni e degli strumenti.

Propio dei tanti modi, dei numerosi toni e dei vari strumenti parleremo al Festival e sono convinto che affrontare questo argomento senza il minimo pregiudizio potrà essere uno dei tanti modi per ribadire  una volta di più quanto sia utile questa occasione di incontro per aprire la testa a elementi che abbiamo sempre tenuto un po’ lontano dalle nostre strategie.

Ci vediamo lì?

 

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